Uno sguardo sull’adulto con disabilità: il progetto di vita.



Poco spesso si prende in considerazione che l’alunno con disabilità che oggi è un bambino o un adolescente, in futuro diventerà un adulto con diritti e doveri. Nel momento in cui ci troviamo di fronte a una disabilità, entra in campo la pedagogia speciale che, però, deve coinvolgere tutte le fasi della vita, fino alla tarda età. La pedagogia speciale, infatti, deve aiutare a garantire una vita dignitosa alla persona con disabilità, prestando attenzione alla persona che invecchia, ma anche tenendo in considerazione il soggetto anziano che diventa diversabile più tardi.

Lo strumento attraverso cui la persona con disabilità viene accompagnata durante tutta la sua esistenza è il Progetto di Vita. Il progetto di vita è un documento che, a partire dal profilo funzionale della persona, dai suoi bisogni e dalle sue aspettative di vita, individua molteplici possibilità, servizi, supporti e sostegni adatti a lui, al fine di migliorare la sua qualità di vita, di sviluppare tutte le sue potenzialità, di permettergli una vita sociale e, laddove possibile, una vita indipendente e autonoma. Il progetto di vita non prende in considerazione soltanto l’aspetto educativo e lavorativo, ma prevede gli aspetti che riguardano il tempo libero, gli svaghi, gli interessi, le alternative, l’adultità e la tarda età.

Il progetto di vita diventa un punto in cui confluiscono tutti i programmi e i progetti individualizzati di quella persona, come ad esempio il PEI. Questo, pertanto, diventa uno strumento che unifica tutti i vari interventi e prospettive, diventando dinamico e multidisciplinare. Il progetto di vita è utile per aiutare la persona che va crescendo a decidere per sé, avendo di fronte un documento che lo orienta, poiché spesso, in situazioni di disabilità, sono gli altri a decidere al posto dell’individuo diversabile.

Il progetto di vita comincia con la nascita della persona con disabilità e si costruisce per gradi, a partire dalla prima infanzia, molto prima dell’ingresso a scuola, coinvolgendo diversi attori: la famiglia, i servizi sanitari, i servizi sociali, la società stessa, gli insegnanti.

L’aspetto fondamentale per progettare questo percorso è la comunicazione della diagnosi e delle modalità di trattamento, effettuate in tempo. È necessario, parallelamente alla comunicazione della diagnosi, il sostegno nei confronti della coppia genitoriale, in modo tale da permettergli di identificarsi positivamente con il figlio con una patologia.

Dopo la diagnosi, il primo passo è costituito dalla progettazione del PEI

Gran parte della vita del bambino è infatti rappresentata dalla scuola, per cui risulta fondamentale in questo momento focalizzarsi sulle scelte e sulle possibilità educative. Tuttavia, il percorso della persona non si ferma con la scuola dell’infanzia, ma procede verso l’adolescenza, l’età adulta e la vecchiaia.

Il periodo dell’adolescenza è un periodo particolarmente delicato per chiunque e, ancor di più, per la persona con disabilità. Durante questa fase, infatti, il gruppo dei pari diventa un punto di riferimento, importante per le identificazioni e per la costruzione della propria identità. Allo stesso tempo, però, l’adolescente con disabilità non fa esperienza di alcuni stili di consumo e codici di comportamento tipici di quella fase, come ad esempio rientrare a casa tardi.

Prendendo, invece, in considerazione il progetto di vita, si dovrebbero analizzare tutte le possibilità dell’adolescente, lasciandolo libero di andare avanti, per proseguire verso l’età adulta in maniera più autonoma possibile. L’adolescente, inoltre, deve essere messo di fronte a una sensazione di continuità che parta dalla scuola dell’obbligo e che proceda anche verso l’università. Anche all’interno dell’università, infatti, spesso non si tengono in considerazione le esigenze e le aspettative di studenti che hanno una disabilità. Con la legge 17/1999 viene istituita una figura nominata dal rettore, cioè un delegato per la disabilità, che ha il compito di gestire, monitorare e intervenire per garantire il percorso formativo dello studente universitario con disabilità.

Finora, tutte le scelte sono state compiute secondo un’ottica educativa e didattica, ma con la fine della scuola e dell’università, non bisogna abbandonare la persona con disabilità a sé stessa. È fondamentale, infatti, promuovere la qualità della vita in tutti gli spazi e non solo nei luoghi dell’educazione e in tutti i tempi, non solo nella fase evolutiva, dimenticandoci che il bambino con disabilità diventa un adulto. È per questo che il progetto di vita sceglie e prende in considerazione obiettivi orientati alla vita adulta, introducendo le competenze in maniera flessibile, in modo tale da proiettarle verso il futuro.

Con il progetto di vita, si prendono in considerazione tutti quegli aspetti che riguardano la vita lavorativa: si insegna alla persona a imparare a lavorare, e non a imparare un lavoro. Inoltre, si prendono in considerazione anche altri aspetti dell’età adulta, come la gestione delle proprie risorse economiche, le competenze affettive e sessuali, la realizzazione di una propria vita familiare, cioè la possibilità di crearsi una nuova e soprattutto una propria famiglia.

La persona adulta deve sentirsi inclusa all’interno della società, e ciò può avvenire solo attraverso il riconoscimento della persona da parte degli altri, l’autonomia, i diritti e le possibilità di agire. Nella fase adulta, tuttavia, il mondo del lavoro assume un ruolo cruciale, poiché diventa un fattore di integrazione sociale. Molte persone con disabilità riescono a trovare un posto di lavoro, o per conto proprio, o con l’aiuto della propria famiglia, o con l’aiuto di servizi sociali e cooperative. Tuttavia, spesso capita che la persona, nonostante venga assunta, non riesca a proseguire con la sua esperienza lavorativa e, alla fine, lascia il posto.

Ciò non avviene per mancanza di competenze, ma la maggior parte delle volte vengono a mancare motivazioni sociali e relazionali. La persona con disabilità deve apprendere una mentalità lavorativa e un’attitudine particolare a svolgere quel determinato compito assegnatogli. Allo stesso tempo, però, spesso la persona diversabile incontra molte difficoltà durante la sua esperienza lavorativa. Poniamo il caso, ad esempio, di una persona con Sindrome di Down: questa, non ha grosse difficoltà di ordine cognitivo, nonostante la rigidità mentale, e quindi una carente flessibilità cognitiva; potrebbe quindi tranquillamente svolgere una mansione lavorativa. Nonostante ciò, presenta delle difficoltà sul piano relazionale. Tale immaturità relazionale non deriva soltanto dal suo deficit genetico, ma dalla sua storia educativa e affettiva: la persona con Sindrome di Down suscita spesso un sentimento di tenerezza e ciò fa attivare delle modalità relazionali asimmetriche, relegando la persona a un’età infantile costante. Questo discorso può essere generalizzato a tutte le disabilità: bisogna lasciare crescere la persona con una patologia, poiché altrimenti non può sviluppare tutte quelle competenze e abilità trasversali che gli consentano un adeguato inserimento nel mondo del lavoro, senza doversi trovare in una condizione in cui l’unica possibilità diventa abbandonare il posto. Il mercato del lavoro, come sancisce l’ONU nella sua convenzione nell’art. 27 (ONU, 2006), deve essere aperto a tutti, anche alle persone con disabilità. Di conseguenza, si proibisce la discriminazione in qualsiasi forma, anche nel reclutamento di candidati e nei colloqui, si promuovono le opportunità di avanzamento di carriera e, soprattutto, si promuove la possibilità di esercitare una attività indipendente. Relativamente alla discriminazione nei posti di lavoro, è importante la legge 67/2006, che sancisce il diritto antidiscriminatorio, distinguendo:

  • Discriminazione indiretta per omissione, cioè un comportamento di discriminazione causato da un’omissione, ad esempio un luogo che dimentica di costruire una rampa d’accesso, determinando così una barriera architettonica e, quindi, una discriminazione indiretta, oppure una mancata assegnazione di un insegnante di sostegno.

  • Discriminazione di rimbalzo, ovvero la discriminazione da parte del datore di lavoro nei confronti di un lavoratore non disabile ma con un parente con disabilità.

  • Discriminazione diretta, ovvero tutti quei comportamenti che discriminano direttamente la persona con disabilità.

Infine, dato che negli ultimi anni la prospettiva di vita delle persone con disabilità è aumentata rispetto alla media passata, non dobbiamo dimenticarci dell’anziano con disabilità. Anche nei suoi confronti, spesso si tende ad avere un atteggiamento iperprotettivo. In realtà, la persona anziana con disabilità, finché ancora capace cognitivamente, è una persona con un bisogno di autonomia e autoaffermazione anche con le difficoltà dovute alla tarda età. Nel caso in cui l’anziano viva in casa, bisogna quindi sollecitarlo a incontrare persone, a impegnarsi in attività ricreative e a trascorrere del tempo fuori e in altri ambienti, senza relegarlo in casa, poiché ciò contribuirebbe a una rarefazione degli stimoli. Se la persona, invece, vive in una residenza per anziani, è fondamentale che non ci si soffermi solo ad aspetti sanitari e di assistenza, ma che si rispettino i suoi spazi personali, consentendogli anche una certa autonomia dove possibile, ad esempio permettendogli di prendere delle piccole decisioni nella vita di tutti i giorni.

Per concludere, possiamo affermare che è importante sostenere anche l’adulto e l’anziano con disabilità poiché queste rappresentano delle fasi di vita critiche per le persone con disabilità, che spesso dopo l’infanzia vengono abbandonate, anche se non dovrebbe essere così. Pertanto, il progetto di vita costituisce uno strumento fondamentale per tutte le persone con disabilità, poiché lo guidano e indirizzano durante tutta la sua esistenza.